Il pasticcio sulle province era dietro l’angolo. E non è questione di ricatti interni alla maggioranza o di restituire uno sgarbo ricevuto da parte di alcune sue componenti. Da mesi, infatti, questo dibattito sulla restituzione del diritto di voto ai cittadini siciliani, che è parte del programma del centrodestra (nazionale e regionale), tiene banco sui giornali e nelle riunioni di maggioranza con un convitato di pietra: la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha bocciato la legge sulle province approvata nell’agosto del 2017 in Sicilia.
Riassunto delle puntate precedenti. Prima il governo nazionale, con la legge Delrio, poi il governo siciliano con la riforma votata dalla maggioranza di Rosario Crocetta assieme ai grillini (dell’allora grillino) Giancarlo Cancelleri, decisero – in vista della riforma costituzionale di Matteo Renzi – di ridimensionare la Provincia o, come alcuni ritenevano, di cancellarla abolendola in quanto ritenuta “ente inutile”.
Si disse allora: se aboliamo le Province chi si occuperà della pianificazione di area vasta? Chi delle strade provinciali? Chi delle scuole superiori? E, soprattutto, quali risparmi si avranno se poi quelle competenze dovranno comunque essere esercitate e, quindi, le risorse stanziate?
Sappiamo bene come finì: il referendum di Renzi bocciato dagli italiani e la mezza riforma firmata da Delrio e, in Sicilia, da Crocetta ancora oggi in piedi. Con una differenza significativa: in Italia, almeno, le elezioni di secondo livello sono state sempre celebrate mentre nell’Isola si va avanti a colpi di commissariamenti da oltre un decennio.
Oggi il quadro, almeno nelle intenzioni, sembra mutato perché a Roma si vuole mettere di nuovo mano alla Delrio e perché anche in Sicilia quella decisione è parte integrante del programma del governatore Renato Schifani.
Tutto bene madama la marchesa? Ma quando mai! In Sicilia – dove tra le tante qualità si è campioni di complicazione di fatti lineari – si era decisa un’accelerazione per arrivare alla elezione diretta dei consiglieri e dei presidenti, senza aspettare la modifica della legge Delrio da parte del governo nazionale.
E qui casca l’asino. Infatti, come ha ricordato nei giorni scorsi l’ex assessore regionale Ruggero Razza (Fdi) dal dibattito politico delle scorse settimane è scomparso un tema molto serio: la sentenza con cui la Corte Costituzionale ha scritto a chiare lettere che quel percorso non può essere più compiuto, perché – sempre grazie all’ineffabile Pd che modificò la costituzione nel 2001 – il nuovo articolo 117 della nostra carta fondamentale assegna la competenza allo Stato centrale e non più alla Regione, anche se a statuto speciale.
Un problemino non da poco, al quale si era pensato di rispondere – in modo piuttosto semplicistico – che se il governo nazionale non avesse impugnato la nuova legge siciliana, tutto sarebbe filato liscio. Non è proprio così, va da sè. Ma questa idea tradisce due grandi errori di valutazione e di impostazione: la volontà politica non può superare la legge e il mancato rispetto della legge produce il rischio di ulteriore instabilità normativa e decisionale.
Quindi, che fare? Di fronte ci sono due scenari, gli unici due scenari possibili: presto anche in Sicilia dovranno essere costituiti democraticamente gli enti intermedi e quindi si darà vita, presumibilmente in autunno, alle elezioni di secondo livello; solo dopo la modifica della legge Delrio si potrà recepire l’elezione diretta con una norma regionale e restituire finalmente la parola al popolo.
Va da sè che il governo regionale si sarebbe potuto risparmiare questa inutile forzatura, ma non tutti i mali vengono per nuocere. Di fronte a noi, infatti, l’Ars ha quasi quattro anni di legislatura ed una occasione storica: aggiornare la nostra autonomia speciale realizzando la riforma dello Statuto.
Dovrebbe essere questa la vera priorità dell’agenda politica siciliana. Lo impongono fattori indispensabili: il processo di integrazione europea che, ormai, ha normato materie un tempo affidate alla legislazione nazionale e, per la Sicilia, da essa delegate grazie all’Autonomia; l’assetto dello Stato come risultato della riforma dell’autonomia differenziata che deve spingerci a ritrovare una nuova “specialità” che ci protegga dal rischio di un’assimilazione con le Regioni a statuto ordinario; la necessità di dare compiuta esecuzione ad un regolamento sulla funzionalità del governo regionale, eletto a suffragio universale dal 2001, con la necessità di prevedere norme di tutela del programma di governo come la possibilità di una decretazione d’urgenza e dell’apposizione della fiducia sui provvedimenti previsti dal programma di governo.
Un’agenda “alta” per un Parlamento che oggi, punto di forza di questa legislatura, ha trovato in Gaetano Galvagno una guida autorevole e di garanzia anche per le opposizioni. Se non ora, quando?
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