di Francesco Finocchiaro
C’è un corto circuito nella percezione che la città di Paternò ha di sé. Come un disallineamento tra la sua storia secolare e l’immagine che proietta all’esterno.
Una città impegnata a nascondere ogni cosa – luoghi, persone, tesori e fatti – per poi ostentare un’identità spesso provinciale. Abbiamo subito un’involuzione complessiva dagli anni ’70 in poi sul piano dei rapporti commerciali, produttivi e sociali; eravamo uno dei nodi di attraversamento principale tra la Sicilia Orientale e quella Occidentale, luogo di attraversamento e di sosta obbligata, utile per contaminare questa comunità verso ogni innovazione. Molta della letteratura di quegli anni testimonia una certa vivacità culturale, sociale ed economica.
Si indagavano diversi temi storici e il dibattito culturale era produttivo. Oggi a rileggere i giornali del tempo sembra di parlare di un’altra città.
Mentre lo sguardo prima degli anni ’70 era verso l’esterno, oggi sembra troppo concentrato a guardarsi allo specchio, sperando di essere ancora bella come una volta. Una città narcisa, autoreferenziale che spesso si piange addosso. Apparentemente connessa al territorio ma nella sostanza recintata e chiusa in un isolamento di sostanza. La città è isolata, arroccata, refrattaria ai cambiamenti e soprattutto diffidente. Guarda dentro la valle e non fuori dalla valle.
Una città che conosce i suoi tesori ma non ne parla. Una città che conosce la sua storia ma la nasconde.
Una città che dovrebbe narrare al villaggio globale ogni sua pulsazione e invece è riservata. Diventando inconsapevolmente preda di una cronaca che non gestisce ma subisce. Le cronache che rimbalzano spesso e fanno scalpore sono quelle legate ad eventi mafiosi, a tragedie familiari, a inchini improvvisati che si trasformano in icone mediatiche fino a storpiare e mitizzare i fatti. Ma non c’è altro?
Isabella Di Bartolo sulla La Repubblica ha dato spazio all’acropoli di Hybla a Paternò, ma la città ha fatto silenzio, quasi imbarazzata, snobbando la portata della notizia. Cristian Bonetti per Lonelyplanet non consiglia di visitare questa città nella famosa guida turistica della Sicilia e tutti rimangono indifferenti. Alcuni turisti denunciano il degrado di alcune vie e in particolare della scalinata e ancora silenzio, semmai un fastidio per essere stati sorpresi con le mani nella nutella. Nessuna autocritica. Un riassunto di casi che fanno riflettere e poi ci scandalizziamo se Antonio Nicaso e Rosario G. Scalia citano la città nel libro “Il mito di cosa nostra”.
Un caso emblematico è quello di Sofonisba Anguissola.
Alfredo Nicotra – storico dell’arte – per anni ha subito ogni forma di diffidenza – da parte della comunità locale – sul riconoscimento dell’opera conservata nella chiesa dell’Annunziata a Paternò. Solo grazie alla città di Cremona – città di nascita dell’artista – e quindi alle risorse messe in campo dalla città lombarda, le tele conservate per anni in città, quasi dimenticate, diventano le protagoniste di mostre a Milano, Cremona e ora a Catania (che le scopre tardivamente). Un fenomeno quello di Sofonisba che risveglia l’orgoglio in città, e meno male.
Non parliamo degli argenti di Paternò ancora custoditi a Berlino o la stele di Julia Florentina a Catania e i tanti reperti disseminati nei depositi dei musei regionali o sepolti in quello comunale, che mostra occasionalmente solo una piccola parte dei suoi tesori (e solo medievali). Aspettiamo un nuovo “folle” come Alfredo Nicotra che ci metta in contatto con istituzioni esterne (nazionali o internazionali) per scoprire le nostre ricchezze, che altri sanno promuovere meglio di noi.
Chissà se tornerà mai a Paternò quella pala del ‘400 che dalla chiesa dei Cappuccini è volata verso Messina senza che nessuna istituzione lo sapesse? Quella pala che Nino Tomasello ha più volte narrato e rivendicato senza nessuna risposta. Sarebbe utile che dopo il dolore per la sua morte qualcuno si ponesse il problema di realizzare un suo sogno che poi dovrebbe essere un nostro sogno. Ecco questo è il tema. Questa città non ha un sogno collettivo di rinascita e di ri-identificazione, ma una faida che ha come unico scopo il nascondimento.
Oggi dobbiamo parlare di “Restanza”, quella che ci propone Vito Teti nella sua ultima produzione edita da Einaudi. Quella tensione che da una parte ci spinge a fuggire oltre il luogo di appartenenza e dall’altra ci chiede di restare per difenderlo dall’indifferenza. La restanza è il tema da sviluppare in una città di confine come Paternò. Perché dobbiamo restare e perché non andare? I recenti dati sull’emorragia demografica e in particolare dei giovani, dovrebbe farci riflettere, per capire se esiste la possibilità di strutturare un nuovo modello di sviluppo che rigeneri la comunità offrendo nuovi orizzonti. Nessuna nostalgia o regressione, ma un rinnovato senso dell’identità, a partire dalla valorizzazione della sua storia.
Oltre l’inchino tanto caro ai media ci sarebbe da riflettere sul contributo del cristianesimo alla storia della città.
A partire dal suo nome (dal greco Parthenos, la Vergine Maria), passando per Julia Florentina (la bimba santa del III-IV secolo) fino ai suoi uomini di chiesa (storici, intellettuali, teologi e mecenati) come Placido Bellia, Gaetano Savasta, Giovanni Di Giovanni e Luigi Luggisi, senza dimenticare alcuni abati che tra il medioevo e il ‘700 governarono il monastero di San Nicolò l’Arena a Catania, quello di Nicolosi e Santa Maria di Licodia, scrivendo pagine straordinarie che raccontano la storia di questo territorio.
Dobbiamo raccontare queste storie, apertamente ed efficacemente, per costruire una nuova cronaca del bello in questa città che spesso dimentica maliziosamente
fonte Corriere Etneo
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