“Magistrati che appartengono” è una vera e propria contraddizione in termini, una locuzione che provoca la stessa sensazione del raschio di un’unghia su una lavagna. Perchè un magistrato che appartiene non può essere imparziale o meglio non può apparire imparziale ed è quindi privo di una delle qualità essenziali che gli sono richieste.
Eppure di tanti, troppi, magistrati che appartengono alle ormai famigerate correnti ci danno impietosa ma viva testimonianza le chat di Luca Palamara, il signore delle nomine, pubblicate quasi integralmente da alcuni quotidiani.
Molti suoi interlocutori indicano l’appartenenza alla stessa corrente dei soggetti di cui parlano utilizzando gli aggettivi “nostro” e “nostri”, come se fossero attestati di qualità, quando invece assumono una valenza spregiativa perché sono riferiti a chi amministra la giustizia in nome del popolo italiano (art. 101, comma 1, Cost.).
E in virtù dell’appartenenza costoro ritengono giustificate e legittime le più svariate richieste, tutte parimenti deplorevoli.
Il caso più frequente è quello di chi segnala questo o quel collega per questo o quell’incarico semi-direttivo o direttivo in virtù del solo fatto che essi appartengono alla stessa corrente, a volte con gradi differenti di premura (“assolutamente”, “molto importante”, “fai tu”).
Troviamo però anche chi rivendica con Palamara la propria capacità di piazzare i comuni sodali; chi, in virtù della fedeltà al gruppo, reclama un maggior riconoscimento in termini di carriera; chi, sempre in virtù dei servigi resi alla corrente pretende non solo l’assegnazione di un incarico semi-direttivo ma che questa avvenga all’unanimità dei votanti, come se tale dato fosse indicativo di una maggiore attitudine anzichè solo di una maggiore protervia.
E non manca chi, in ragione dell’appartenza allo stesso gruppo, cerca di impedire la progressione in carriera di colleghi di altri gruppi, invitando Palamara a votare contro di loro.
Sebbene questi comportamenti siano stati tenuti da magistrati della medesima corrente di Palamara, Unicost, la genia dei magistrati che appartengono è diffusa in tutte le correnti della magistratura.
Lo stesso ex presidente dell’Anm, nel corso di una delle sue uscite televisive, ha dichiarato “molto chiaramente” che chi non è legato a nessuna corrente viene penalizzato nella sua carriera, ovvero, detto in altri termini, non ha possibilità concrete di aspirare ad incarichi direttivi.
Un puntuale riscontro a questa affermazione la si trova in un’altra chat in cui Nicola Clivio, esponente della corrente Area, e all’epoca membro del Csm, nel segnalare a Palamara, per un determinato posto, una serie di nominativi di colleghi appartenenti alla propria corrente, precisa che questa ha deciso di “mollare” una di loro, sebbene, aggiunge Clivio, sia “una grossa ingiustizia”, perché “è la meno schierata e quindi più vulnerabile”.
Abbiamo quindi la riprova che, nel sistema di “eterogoverno” gestito dalle correnti, solo la totale dedizione ad esse può assicurare se non la certezza almeno concrete possibilità di carriera e del resto le correnti, come abbiamo già spiegato in un altro articolo cercano di fidelizzare i magistrati fin da quando vincono il concorso.
Qual è il risvolto più preoccupante della diffusione di quello che possiamo definire come il modello del magistrato che appartiene ?
Che costui, una volta ottenuto dal suo gruppo il sostegno richiesto, dovrà essere disposto a sdebitarsi, qualora un giorno gli fosse richiesto, con azioni od omissioni secondo un patto non scritto che non ha limiti predefiniti di contenuto.
In altri termini egli si sottopone ad un vincolo che potrebbe anche incidere sull’esercizio della sua attività giurisdizionale, sebbene l’art. 7 del codice etico dei magistrati preveda che: “Il magistrato non aderisce e non frequenta associazioni che richiedono la prestazione di promesse di fedeltà o che non assicurano la piena trasparenza sulla partecipazione degli associati”.
E pare anche dimenticato l’insegnamento di Calamandrei secondo il quale l’indipendenza dei giudici «è un duro privilegio, che impone, a chi ne gode, il coraggio di restar solo con se stesso, a tu per tu, senza nascondersi dietro il comodo schermo dell’ordine superiore». (da “Elogio dei Giudici, scritto da un Avvocato”).
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