NEL MOMENTO IN CUI DI MAIO AFFERMA CHE NON GLI RISULTA ALCUN PAGAMENTO DEL RISCATTO, ARRIVA UNA INTERVISTA TELEFONICA AL PORTAVOCE DEI TERRORISTI:
I 4 milioni di dollari pagati dallo Stato italiano per il riscatto di Silvia Romano aiuteranno Al-Shabaab a finanziare le proprie attività terroristiche. Tutto come previsto, insomma. A chiarirlo è lo stesso portavoce dei tagliagole somali, Ali Dhere, in una clamorosa intervista concessa a Repubblica.
Quei soldi, ha spiegato al telefono, “in parte serviranno ad acquistare armi, di cui abbiamo sempre più bisogno per portare avanti la jihad, la nostra guerra santa. Il resto servirà a gestire il Paese: a pagare le scuole, a comprare il cibo e le medicine che distribuiamo al nostro popolo, a formare i poliziotti che mantengono l’ordine e fanno rispettare le leggi del Corano”.
Ali Dhere ha parlato anche della conversione all’Islam di Silvia, che tornata in Italia ha spiegato di volersi far chiamare Aisha. “Da quanto mi risulta Silvia Romano ha scelto l’Islam perché ha capito il valore della nostra religione dopo aver letto il Corano e pregato”.
“Rispetto per le donne” – Al rapimento della cooperante italiana, ha detto ancora il portavoce, hanno partecipato “decine di persone”, ma non è stato organizzato dai vertici del gruppo: “C’è una struttura in seno ad Al Shabaab che si occupa di trovare soldi per far funzionare l’organizzazione, la quale poi li ridistribuisce al popolo somalo. È questa struttura che gestisce le diverse fonti d’introiti”. Tra cui, appunto, i rapimenti di occidentali.
Il portavoce spiega poi perché Silvia non è stata maltrattata: “Silvia Romano rappresentava per noi una preziosa merce di scambio. E poi è una donna, e noi di Al Shabaab nutriamo un grande rispetto per le donne”. “Abbiamo fatto di tutto per non farla soffrire, anche perché Silvia Romano era un ostaggio, non una prigioniera di guerra.
I prigionieri di guerra li passiamo per le armi, esattamente come fa l’esercito somalo quando cattura un soldato di Al Shabaab. Prima di giustiziare i prigionieri, le truppe di Mogadiscio li torturano per farli parlare, per estorcere tutte le informazioni possibili sulle nostre postazioni strategiche o sulla struttura di comando del nostro gruppo.
Ma i nostri soldati sono addestrati anche a soffrire, perciò molti muoiono sotto tortura senza rivelare nulla. Noi invece non dobbiamo torturare nessuno, perché sappiamo tutto, avendo a Mogadiscio infiltrato i nostri uomini in ogni istituzione, ministero, partito politico e perfino nell’esercito somalo”.
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