Maggioranza più ampia e non raccogliticcia o le urne
Giuseppe Conte ha ottenuto la minoranza assoluta, che gli consente di rimanere premier. Tecnicamente si dovrebbe dire maggioranza relativa. In sostanza respira con la cannuccia, sotto il pelo dell’acqua: non ha ottenuto 161 voti ma 156.
In sintesi. A Palazzo Madama, non è successo niente. Il cielo da giorni era percorso da nembi da tregenda. Tanto tuonò che non piovve. E dire che poco prima delle 18 in aula si era alzato Matteo Renzi in posa da castigamatti, tonitruante come Zeus con la saetta in mano. Ha scandito con precisione i capi d’accusa, fornito le prove dei delitti contro la buona fede degli italiani commessi dal presidente del Consiglio, che, un anno e cinque mesi fa, lui aveva salvato dalle acque sottraendolo alle mascelle di Salvini.
È stato un j’accuse da decapitazione politica: «Hai pensato alle poltrone, e non al futuro», ha detto il senatore di Scandicci. L’ha pure disonorato raccontando che l’avvocato ha cercato di comprarselo offrendogli il ministero degli Esteri o qualcosa di prestigioso nel vasto mondo, tipo Satana con Gesù Cristo. Mercimonio, roba da onestà-va-a-cagà insomma. Ecco la sentenza: «Dobbiamo fare presto, o i nostri figli ci malediranno». Dopo di che ha alzato lo spadone (giuro lo abbiamo visto in parecchi), se l’è tirato sui piedi, e si è astenuto. Tutte ‘ste mosse ed è finita con una simpatica scoppola sulla sella turcica del morituro. L’ha salvato ancora, allora è un vizio. Fino all’ultimo, spes contra spem, ci eravamo illusi. Poveretti noi. Credevamo che in fondo, anche nelle stanze dei bottoni, come in salumeria e in famiglia, due più due facesse quattro. No. Lassù, in quel teatrino sui colli romani, due più due fa sempre e solo due più due, senza mai arrivare alle conseguenze. Confidavamo in una sana follia di Renzi. Ha prevalso l’istinto di conservazione, la paura di morire.
Risultato? Dall’aula è uscito, con lo scettro tra le delicate mani appena lievemente tremanti, lo stesso uomo senza volto e senza qualità che vi era entrato un po’ chino alle nove e trenta del mattino. E ora? Sarà più debole, Giuseppe Conte, come dicono in tanti, sarà più ricattabile: ma chi se ne frega, non ha perso neanche una goccia di sangue (anche perché non ne ha). Conserva il potere enorme di lasciarci annegare nel virus, con il suo immobilismo in patria e con l’incapacità di procurarsi i vaccini nel mondo. Non buttarlo giù è stato come buttar giù l’Italia. Anzi impedirle di sollevarsi. Se questo Paese se la caverà, oggi lo sappiamo, non sarà per via politica, ma per la tenace scorza della gente comune, che si arrabbia e che resiste. Sicuri però che di fronte a questa eterna Caporetto il popolo starà buono e ubbidiente, constatando l’incredibile distanza tra il proprio quotidiano e le preoccupazioni dei suoi rappresentanti? Ci sono segni di disagio organizzato in giro, che non si potrà soffocare con un Dpcm, le ronde dell’esercito, e le intemerate degli scienziati al guinzaglio del governo.
Lo ha detto molto bene il capogruppo leghista Massimiliano Romeo: «Se non cambiamo, ci verranno a prendere qui dentro». Un po’ se lo meritano gli italiani questo molle tiranno senza arte né parte governativo: i Cinque Stelle li hanno scelti loro (cioè noi). Il Parlamento è sovrano, lo sappiamo. Sapevamo da prima che parla di ideali e punta alla convenienza. È il fattore umano, e l’umanità è anche questa roba qui. Ma possibile che lì non vibri qualcosa che induca a dar ragione al sentimento di chi sta fuori? E che ha sbagliato facendo vincere i grillini, ma non ha dato loro il potere assoluto, invece eccoli lì, indomiti a sedersi sulle loro schifezze. Come ha detto uno di loro: «Non molliamo». Figuriamoci se lo mettono a rischio.
Anche quelli che si erano trasferiti nel gruppo misto per questioni di rimborsi spese sono rientrati nella casa madre al momento della scelta tra «plata o plomo» (soldi o piombo), come diceva Pablo Escobar ai poliziotti da corrompere. Il capitano senatore Gregorio De Falco, quello che gridò a Schettino: «Cazzo torna a bordo», e che indignato dai compromessi di Di Maio si era ammutinato, ora come il lupo di Gubbio accarezzato da Conte si è ammansito. Il motivo? È quello stesso cui si sono aggrappati tutti i soccorritori del carro vincente. Il Covid! Pare che nel suo discorso Conte abbia promesso di fare tamponi come piovesse. Bravo ti voto. È la stessa ragione urlata da tutti i compari giallorossi e dai loro nuovi acquisti. Ah, il dramma del virus non può sopportare un cambio di guida del governo. Ah sì, dopo Caporetto secondo loro bisognava lasciare al comando il general Cadorna! Ha sacrificato stoltamente le truppe? Ha aperto le porte al nemico? Amen, meglio la stabilità – rispondono costoro «Il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie», disse il patriota Samuel Johnson contro gli ipocriti. Be’ stavolta è la pandemia, trasformata in ancora per non spostarsi dalla seggiola. In questa giornata ne sono state dette tante. Ci risolleviamo l’animo con una parata di sgrammaticature. La grammatica, come diceva Leonardo Sciascia, è l’etica.
Interviene Barbara Floridia (M5S), nella sua biografia comunica che è laureata in lettere moderne «con il voto di 110 e lode» parbleu. Denuncia il «vulnus» inflitto da Renzi all’Italia. Dice che è una cittadina comune, tornerà a insegnare nelle superiori dove ha la cattedra. In diretta comunica a milioni di connazionali cosa la agita nel profondo del cuore. Che cosa? «La mia esterefazione di non sapere esattamente e non capire». Esterefazione? Esterefazione con una erre o due? Si è confusa con torrefazione? Nel resoconto stenografico non c’è. La mano pietosa di un funzionario ha corretto in «stupore». Incespichiamo tutti con l’italiano, il fatto è che i grillini lo hanno portato al cimitero. Un altro grillino, Vincenzo Santangelo sembra Cartesio quando innalza il suo quesito esistenziale: «Una domanda è rimasta in sospesa». Giusto. Domanda è femminile. Molto più chiaro Conte che replica a Renzi, ingrato per il fatto che gli ha salvato la vita, accusandolo: «Persi quaranta giorni per colpa vostra. Senza maggioranza andiamo a casa». Tanto lo sa che se la cava.
È stato un giorno di dibattito, dove non battevano i cuori, ma si batteva cassa. Una piattezza degna di un luogo senza anima, dove è vibrato soltanto, dietro la finzione retorica, il desiderio palpabile di non vedersi scivolar via la prebenda. In simili condizioni siamo sicuri che questo governo troverà il modo di esasperare la sua prepotenza di decretini, di mance qua e là per non affondare nelle commissioni, per catturare qualche s(‘)offerente. Povera Italia. Come ha detto, sfoggiando il suo bel panciotto, il senatore dell’Udc Franco Del Mas sul far del mattino: «Qui si combatte la disfida di Burletta». Amen.
da LIBERO
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