Nonostante il pensionamento, il dott. Piercamillo Davigo continua ad imperversare sui media. Editorialista del Fatto Quotidiano lo era già in pectore da magistrato, dunque era il minimo che potesse accadere. Meno scontato era invece che i salotti TV continuassero a contenderselo, impalcandolo come un oracolo (rigorosamente soliloquiante) anche oggi, dismessa la toga; ma se lo fanno, avranno -come si suol dire- la loro bella convenienza. Evidentemente gli indici di ascolto premiano la scelta, e soprattutto si attribuisce al dott. Davigo una sorta di rappresentanza permanente effettiva del pensiero tutt’ora dominante nella magistratura italiana. In cuor mio, mi auguro si sbaglino; ma è certo che questo penserà la gran parte dei cittadini italiani, che se lo trova in video e sui giornali con immutata frequenza e solennità.
Il personaggio d’altronde, diciamocela tutta, non delude mai. Sentite questa. Gli chiedono di commentare la sortita di Paolo Mieli, che ha profetizzato per Draghi infauste ghigliottine giudiziarie ove dovesse azzardarsi -come puntualmente accaduto in passato- a mettere mano alla riforma della giustizia senza il consenso e magari contro gli auspici della magistratura italiana. Davigo si indigna, accusando Mieli di parlare a vanvera di cose che ignora. Mieli era il Direttore del Corriere della Sera durante Mani Pulite: ha certamente molto da farsi perdonare, ma accusarlo di non conoscere il tema è già di per sé grottesco. Non pago dell’infelice esordio, l’ex magistrato spiega (siamo a Piazza Pulita) che «per aprire un provvedimento ci vuole una notizia di reato, non è che il pubblico ministero si sveglia la mattina e dice: chi incrimino oggi?». Ah ecco, non è che la notizia di reato, come noi ingenui e malpensanti ritenevamo, venga battezzata come tale dal P.M.; essa è una realtà oggettiva, incontrovertibile, estranea alla volontà ed alle intenzioni di questa o quella Procura. Insomma il P.M., mentre se ne sta lì buono buono nel suo ufficio, viene investito da una notizia di reato come da un meteorite, e non può farci nulla. Se succede, succede.
Ribatte Formigli: “Però non è detto che quei reati vengano dimostrati”. “Questo è un altro discorso – ammette Davigo -, tra l’altro possono non essere dimostrati perché non ci sono, o perché per mille e una ragione non si riesce a dimostrarli, magari per le leggi particolari che abbiamo in questo Paese e che altri Paesi non hanno”.
Ecco, qui la cosa si fa appassionante. Può accadere che una accusa sia infondata? Il dott. Davigo deve ammettere a mezza bocca, e supponiamo con enorme fatica, che sì, questo può verificarsi in natura, di quando in quando. Ma ciò che soprattutto accade è che la Verità, naturalmente insita nella originaria ipotesi poliziesca, venga soffocata dalle infami regole del processo penale italiano, intriso di inaudite trappole garantiste, uniche nell’orbe terraqueo. E quali sarebbero, queste mortali trappole italiche, e solo italiche, che salvano le terga di legioni di colpevoli lasciati in giro a pascolare indisturbati nei prati dell’illecito? “Le prove raccolte durante le indagini preliminari – sottolinea l’ex pm – di regola non valgono durante il dibattimento, e questo spiega perché persone che erano state raggiunte da elementi molto forti e concreti ma non utilizzabili nel processo poi vengano assolti”. Ora, credetemi, si fa fatica a comprendere esattamente a cosa intenda riferirsi il nostro inimitabile dott. Davigo. Ma se le parole hanno un senso (ma è questo il punto: hanno un senso?), egli non può che riferirsi al processo in quanto tale. Insomma, quello descritto nell’articolo 111 della Costituzione. Quello per il quale le indagini di Polizia, i testimoni sentiti senza contraddittorio in un commissariato, le intercettazioni telefoniche riassunte e selezionate a propria discrezione dalla Polizia Giudiziaria, le consulenze tecniche e le prove scientifiche adoperate in modo solitario dal P.M., assumeranno valore di prova solo dopo essere state vagliate in contraddittorio in un processo nel quale, finalmente, la difesa dell’imputato potrà fare un paio di domande ai testimoni che accusano l’imputato, e far sentire, se non disturba, i propri consulenti tecnici ed i testimoni che potranno eventualmente smentire l’accusa. Questa roba qui, secondo il Nostro, sarebbe la ragione per la quale spesso accade -orrore!- che gli imputati vengano assolti. E si tratterebbe di una follia tutta italioita, ignota ai Paesi evoluti (che, come è noto, albergano solo nella sua fervida immaginazione). Insomma, ecco il disastro della giustizia italiana: è il processo in quanto tale. Invece di portare direttamente al giudice l’alacre e duro lavoro di Pubblici Ministeri e Polizia giudiziaria, perché questi emetta la sentenza senza tante inutili ciance, tocca ripetere tutto davanti a lui, consentendo agli avvocati di mettere becco con le loro domande e le loro prove. Che tempi, signora mia, che tempi! (Giandomenico Caiazza)