Ma il maestro di Paternò conosceva, e apprezzava, il pensiero del Maestro di Racalmuto? – Si.
E il Maestro di Racalmuto credeva nella storia? – No. “La storia mente e le sue menzogne avvolgono di una stessa polvere tutte le teorie che dalla storia nascono” (La Sicilia come metafora). E a uno dei suoi personaggi farà anche dire: “è un’impostura. La storia non esiste” (Il Consiglio d’Egitto).
Se a ciò aggiungiamo – sorvolando sulle storie figlie dei vincitori o del migliore offerente – che pure un altro Autore molto amato dal maestro di Paternò dubitava assai persino delle storie scritte su carta bollata che vanno sotto il nome di sentenze (Storia della colonna infame), allora possiamo concludere che l’appellativo di storico per Nino Tomasello è inadeguato per difetto.
Del resto, tutti siamo degli “storici” quando narriamo qualcosa del passato di cui in un modo o nell’altro abbiamo appreso. Siamo dei “cuntastorie” (da non confondere con “cantastorie”, che è un’arte) ma niente di più. Mentre il di più di Nino Tomasello consiste nell’aver strumentalmente inscritto le sue storie in un più ampio e complesso percorso formativo che non si fermava ai suoi alunni ma ambiva a coinvolgere la comunità intera. Spesso su piani intellettuali così raffinati e anticipatori sui tempi, forsanche visionari, da risultarne ardua la condivisione.
E così, quando invitò a Paternò (trent’anni prima di ricevere il Nobel per la letteratura) Dario Fo, che il quotidiano del PCI del giorno prima aveva paradossalmente tacciato di qualunquismo, la sala rimase quasi vuota. E quando guidò il Movimento Giovanile DC alla Pro Civitate Christiana di Assisi (all’epoca il pensatoio più avanzato d’Italia nell’elaborazione del rapporto tra cattolicesimo e marxismo) era tale la nostra inadeguatezza che uscimmo senza aver compreso niente da un incontro con Ernesto G. Laura che aveva recensito “… E di Shaul e dei sicari sulle vie da Damasco” e l’indomani, per non far capire al resto della sala che non conoscevamo il francese, assistemmo senza fiatare, annuendo ogni tanto pro forma, a tre ore di conferenza di un filosofo che parlò per tutto il tempo nella sua lingua madre.
E’ possibile che sia questo il motivo per cui a Paternò e dintorni, confini dell’impero, l’attività di Nino Tomasello sia stata, come sottolineato da tanti, molto apprezzata ma quasi mai accompagnata (basta citare la vicenda del testamento Virgillito) da riconoscimenti concreti? – Probabilmente si. E a ciò va aggiunta la carica disvelante (quindi pericolosamente rivoluzionaria) dei suoi ragionamenti, che forse sfuggiva ai più ma non certo all’occhio clinico di chi stava al potere, di qualunque tipo. E infine, se per sogno intendiamo la fase visionaria necessariamente anticipatoria di ogni grande progetto, è meglio non aver mai sognato se poi non si è in grado di reggere all’eventuale insuccesso.
Di recente, un critico d’arte in visita alla Biennale di Venezia non capiva perché dalla stessa si sentiva nel medesimo tempo attratto e respinto, fino a quando realizzò che erano le iperboliche concettualità ivi proposte ad affascinare e assorbire da un lato ma anche a stordire e spaventare dall’altro; quindi qualificò quell’esperienza come “un contrappunto appropriato alla nostra perdurante ignoranza”.
Credo che Nino Tomasello abbia rappresentato per tutti noi lo stesso tipo di contrappunto. Pippo Cicero
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