Il presidente del Consiglio dei Ministri, Giorgia Meloni, ha annunciato – dal palco dello stabilimento Enel di Catania – che è prossima la sottoscrizione dell’accordo di programma, sull’utilizzo delle risorse del Fondo di sviluppo e coesione (FSC) 21-27, tra lo Stato e la Regione Siciliana. Si tratta di una dichiarazione importante ed attesa, perchè la dotazione economica della nostra Regione, pari a 6.8 miliardi di euro, è tra quelle più rilevanti in termini di quantità delle risorse investite.
Proviamo, tuttavia, un piccolo passo indietro nel tempo. L’ultimo accordo di programma sottoscritto tra Roma e Palermo fu “officiato” da Matteo Renzi (presidente del consiglio) e da Rosario Crocetta (presidente della Regione). Palcoscenico prescelto per l’evento (mediatico e politico) fu la valle dei Templi, dove vennero convocati ad assistere alla “storica” firma i sindaci, carichi di speranze per opere che sarebbero presto diventate realtà.
La dotazione di quel “patto” era, in apparenza, una dotazione monstre: oltre 4 miliardi di euro. E l’auspicio (tradito) era stato quello di spendere bene, spendere tutto.
Com’è andata a finire? Il racconto del dopo, a questo punto, si interseca con quello del prima. Infatti, arrivato a Palazzo d’Orleans sul finire del 2017 (a quasi tre anni da quella firma), il governo di centrodestra, appena insediato, scoprì l’amara sorpresa: la quasi totalità della mole indistinta di interventi non era dotata di progetti, neppure allo stadio della progettazione definitiva (che, com’è noto, precede quella esecutiva cui segue la cantierabilità delle opere, a meno di un ricorso all’appalto integrato che, in quegli anni, non era ancora stato legislativamente esteso a tutti gli interventi).
Insomma, era una fantastica “lista della spesa”, accompagnata da speranze di raccolta del consenso elettorale. E non è mancato, nei primi mesi del governo di Nello Musumeci, chi si fosse affrettato – per allontanare responsabilità – a dire che per firmare quell’accordo fu “raschiato il fondo del barile”, tra studi progettuali e telefonate alle amministrazioni di mezza Sicilia (le amministrazioni amiche) per mettere insieme una lista infinita di centinaia di interventi da realizzare e, poi, non realizzabili.
Non devono meravigliare, pertanto, le parole del premier che, da Catania, ha ricordato che le risorse non vanno solo stanziate, ma anche spese. Parole chiare, che sono il prodotto di una ricognizione fatta all’insediamento del suo governo, quando Meloni (con Fitto) scoprì che del ciclo di programmazione concluso oltre il 75% delle risorse non erano state spese, né dalle Regioni né dallo Stato.
Ecco, quindi, per il vero in linea con le ultime indicazioni fornite dall’allora ministro della Coesione Mara Carfagna, che ha preso forma quella novità che manda su tutte le furie il governatore campano, Vincenzo De Luca: con il governo Meloni negli accordi di coesione vanno solo opere cantierabili, dotate di progettazione adeguata alle procedure previste dal codice degli appalti, nell’ambito di una strategia nazionale che riserva al Sud l’80% degli investimenti, ma che pretende che le opere si realizzino, introducendo i poteri sostitutivi dello Stato nel caso di inerzia o inadeguato stato di avanzamento delle procedure.
Se questa è la novità, auspicata come salvaguardia della capacità di spese di tutte le risorse disponibili, veniamo al “caso siciliano”. Del suo FSC 21-27 la Sicilia si era iniziata ad occupare nel 2022, approvando con pareri delle competenti commissioni del parlamento siciliano una prima lista di interventi pari al 25% dello stanziamento complessivo, come richiesto dal governo nazionale (allora in carica era il governo Draghi).
Musumeci fu particolarmente inflessibile e pretese che ogni dirigente generale proponente firmasse una dichiarazione sulla verifica di immediata cantierabilità delle opere proposte. Così fu.
Oltre quelle risorse, fatte salve le impugnazioni della legge di stabilità approvata lo scorso anno, il primo dell’era Schifani, si è poi provveduto a due ulteriori prenotazioni di spesa, questa volta con legge nazionale: 1,3 miliardi per il Ponte sullo Stretto di Messina e 800 milioni per i termovalorizzatori.
Anche a voler considerare l’intangibilità delle prime scelte del 2022 (tutta da vedere, con il nuovo corso che punta, invece, a cancellare il passato recente), nelle prossime settimane la Regione dovrà programmare una somma che si aggira alla cifra mostre di più di 4 miliardi di euro.
Nei mesi scorsi ad accendere la spia era stato l’ex assessore regionale alla Salute, Ruggero Razza, che aveva chiesto di arrivare puntuali all’appuntamento con una proposta di Fdi: grandi progetti confermati, attenzione per la salute (Ismett, Siracusa e Ragusa), una dotazione speciale per Catania (rilanciata dal sindaco Trantino al congresso di Forza Italia) con l’obiettivo di chiudere la vergogna di corso Martiri della libertà e, come scelta di fondo, la previsione di un corrispettivo siciliano che si integri con il “Piano Mattei” presentato da Giorgia Meloni al vertice ItaliAfrica che si è svolto a Roma.
Quali che saranno le decisioni, per la quali va detto che tutto procede molto silenziosamente, forse persino troppo, la palla, dopo l’approvazione degli interventi da parte della Giunta, passerà all’Assemblea Regionale Siciliana, guidata da Gaetano Galvagno. Sarà il presidente dell’Ars il primo protagonista di questa manovra per la crescita della Sicilia: a lui competerà apporre, nei fatti, il sigillo finale ad un passaggio epocale per l’Isola, quello in cui finalmente le risorse stanziate saranno spese, senza perdere un euro.
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